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La notte nera di milano

Milano di marzo è strana. L’ inizio della primavera può essere prepotente o ritardare. In quell’ anno,il lontano ma sempre vicino 2003, faceva abbastanza caldo, umido,il cielo era buio ma sereno,le stelle inesistenti per la prepotenza della patina di smog perenne che porta  i riflessi arancio dei lampioni a sfumare l’ orizzonte tra le case.

Come nostra usanza, buona direi, ogni domenica sera ci trovavamo a mangiare fuori sempre in ticinese , cambiavamo posto spesso, perche il cibo non era il nostro unico fine, ma il vedersi, ridere,scambiare battute sulle serate passate, magari , non sempre insieme;insomma un rituale per continuare le nostre amicizie in una città arida di socialità.

Quella sera eravamo in una pizzeria in via Tibaldi, io, Dax, Alex, Fabietto, Nunzio e Angelo il sergente.

Il menù, non me lo ricordo ma il vino rosso da pasto sì,non era buono; la cena era trascorsa con la solita allegria, un brindisi e qualche risata liberatoria.

Qualche mese prima erano stati arrestati, per il g8 di Genova, Marina e Vincenzo.Per questo come loskinindividui, così si chiamava la nostra crew di dj’s, avevamo prodotto un cd per autofinanziare questa situazione dei compagn° colpiti dalla repressione, forti sempre del pensiero che colpissero tutti noi e la solidarietà un arma da non caricare a salve contro questo stato infame.

Eravamo fibrillanti.

Finito l’amaro, pagammo ognuno il suo, uscendo a testa alta nel nostro quartiere.

Il ticinese, mi affascinava sin da ragazzo;avevo iniziato a frequentarlo andando alle scuole superiori: era ricco di parchi, centri sociali, case occupate e locali per ogni gusto.Un punto di ritrovo per molti rozzanesi che sfruttavano il tram 15 che faceva spola direttamente dalla poco ridente cittadina dell ‘interland milanese; una città dormitorio ai tempi! Il tragitto durava una buona mezz’ oretta, per la maggior in corsia preferenziale, tra palazzoni di 9 piani tutti uguali ,figli dell’ immigrazione verso il nord avvenuta negli anni 70. Concepiti da architetti di ovvio cattivo gusto o forse apposta brutti per ricordare che il bello è dei ricchi in questa città simbolo del lavoro borghese: la Milano da bere, la Milano craxiana, la Milano che ci fa schifo.

Di  sera il flusso migratorio rozzanese si spingeva verso il nord in massa.

Io e gli altri amavamo frequentare posti occupati, da conchetta all orso o alle varie realtà abitative di via Gola, una zona forse presa come spunto da Martin Scorsese per il film taxi driver; un luogo di intreccio e contraddizioni tra malavita e povertà,un luogo dal basso nel quale, noi, ci radicammo subito bene.

“…cosa vuol dire amare un centro sociale…” cantava il buon Luca o’Zulu dei 99posse;noi lo capivamo. Vivevamo in questa funzione, frequentando in modo militante l Officina della Resistenza SOciale  in tutte le sfumature,dalla pulizia alla manutenzione passando dalla programmazione artistica ai turni in cassa e al bar.Inutile dire che, noi , non brillavamo per le nostre “doti orali” ma eravamo con il cuore a disposizione del quartiere, vicini agli abitanti in modo attivo sostenendo e praticando le occupazioni degli appartamenti sfitti e lasciati in decadenza da parte di quella macchina speculativa chiamata A.L.E.R.

La lotta per la casa era dura ma molto umanamente appagante e spesso gli scontri con la polizia ci vedevano dominanti;con la coda tra le gambe i porci se la svignavano quasi sempre e quando esageravano qualche sberlone li portava sulla retta via.

Loro hanno segnato tutto.

L’ appuntamento per i cd era davanti al circolo dei malfattori in via Torricelli.

Puntuali ed euforici arrivammo in gruppo ridendo, spensierati e invincibili; Angelo era rincasato perché era l anniversario della scomparsa della sua mamma e non era di buon umore, l omone grande con un cuore immenso.Con Alex, l autoproduzione di questo cd era diventata movente di vita,aiutare altri compagni in modo materiale senza grandi parole ci rendeva orgogliosi e passavamo ore e giorni insieme a studiare i pezzi che poi avremmo messo insieme al terzo loskindividuo: il Peter.

Averli in mano fu emozionante.

La possibilità di festeggiare l evento pure. Decidemmo di dirigerci, per bere una birra, al Tipota, un pub aperto alla domenica in via Brioschi, a poche centinaia di metri.

Quella strada in vita mia l avrò fatta migliaia di volte. Quella sera ci accanimmo contro una vetrina di Man Power appena approdata nel galeone ticinese; tirai un moschettone che rimbalzando cadde sotto una macchina, facendomi non poco bestemmiare.

Mi chinai per recuperarlo,persi qualche metro rispetto agli altri compagni.

Alzando la testa vidi subito la tensione,riconobbi quel merdone fascista con il cane nero,un rottwailer di nome Rommel ,che già in passato gli era costato un paio di sani ceffoni antifascisti.Era in compagnia di un ragazzino,ero lontano una ventina di metri, Dax ,Nunzio, Alex e Fabio sulla destra e loro sulla sinistra di un cassonetto che mentalmente mi creava una linea di separazione inesistente;due suoni di voci incomprensibili,il luccichio di una lama portata come un montante al collo di Dax:il gelo,slow motion,senza suono,un attimo eterno impresso nella memoria durato una vita.Mezzo passo indietro seguito da uno in avanti ,perché Dax era un guerriero, il film accelera improvvisamente,il luccichio delle lame vola in uno scorcio di Milano che finisce in uno dei pochi parchi aperti della città. Mi faccio avanti con il tempo d’ istinto, ho tolto la cinghia facendomi sotto al ragazzino che distribuisce coltellate al mio fratello di vita,tutte in zone vitali;anche Nunzio, a cinghiate , annulla il fascista infame che resiste poco e scappa.Parte di guerra e consumata,l altra si e spinta dall ‘altra parte della strada dove sono diventati due le merde. Alex e Fabio lottano,ricordo poco,tra le braccia mi arriva Dax:”Brega bello mi hanno preso”.”andiamo via di qui” risposi stingendolo forte e sorreggendolo per dieci metri ripercorrendo via zamelhof fino all incrocio con brioschi davanti al tipota.”siediti che vado a prendere la macchina!””grazie Bre” mi disse.

Mi misi a correre verso la macchina che era a 3 minuti di strada.

Ero pieno di sangue,lo sentivo scivolare sotto la felpa leggera che avevo,correvo ma i polmoni mi scoppiavano.La strada non finiva mai sembrava allungarsi, deformarsi, impennarsi.Mi fermai senza fiato un secondo, alzando gli occhi al cielo sempre più buio,nero opaco,come  pupilla di un pesce morto da giorni.

Ripartii nella corsa inutile e affannosa. Alla macchina ero pallido,lo specchietto retrovisore mi ricordava nel mio viso schizzato di sangue cosa ero li a fare:schizzai verso via brioschi.

Dax era per terra ancora cosciente in un lago di sangue che ad ogni suo movimento creava delle onde che si infrangevano su di una spiaggia di marmo che era il marciapiede;un odore di ferro nell’ aria riempiva i nostri polmoni in una atmosfera surreale.Il Rosso era il gestore del tipota, mi venne incontro:”Brega arriva l ambulanza abbiamo chiamato il 118”.Annuii.

Mi inginocchia,gli occhi di Davide tendevano ad incrociarsi come quando era stanco,con quell atto di strabismo che gli conferiva la dolcezza di un gigante buono, sensibile ed altruista.

“brega ho paura”,proferì con un filo di voce,con delle labbra che avevano vissuto mille emozioni e ora appassivano sporche di sangue in un color scuro bluastro;”non ti preoccupare,ci siamo noi”risposi. Chiuse gli occhi dopo avermi dato quello sguardo di fiducia e sicurezza di chi nell’amicizia crede e vive ogni lato di quel diamante indomabile che è la vita.

Quegli occhi non si aprirono più.

Arrivò l’ambulanza, ricordo che era della croce bianca, e subito qualche minuto dopo la scenic del 118 con a bordo il medico. Iniziarono il loro lavoro. Il mio sguardo si scollò dal viso di Davide perdendosi nei passanti, gente incredula, gente che queste cose le vede nei film o al telegiornale, magari riempiendosi la bocca di finta violenza di retaggi gangster da poveracci ,tipico del rap da due soldi italiano. In quelli sguardi gente comune che era li a bere una birra, gente che forse dovrebbe pensare che noi in quel caso eravamo una punta dell’ iceberg colpita dalla violenza infame fascista perche diversi nel loro modo e categoricamente disprezzanti dello stesso; gente che non dovrebbe sentirsi esonerata dalla possibilità di essere prossima vittima di un sistema che crea servi pronti e garantiti ad avvalersi di tesi razziste omofobiche sessiste e impugnarle per farsi giustizie sommarie per le strade e garantite nei tribunali.

La situazione subito sembrò grave.Nel frattempo anche Alex si era accasciato in un lago di sangue, Fabio aveva due lamate in un braccio, gli aggressori fuggiti;i servi peggiori in arrivo.

In pochi minuti tutta la zona fu circondata da polizia, molto probabilmente proveniente dal commissariato di via tabacchi che dista veramente poche centinaia di metri. L’ unica via di accesso alla zona, chiusa con camionette , e tutto l’ isolato accerchiato da ps in antisommossa. Non si avvicinarono,il silenzio si tagliò con le prime urla di disprezzo a cacciare coloro fuori luogo e a lasciar lavorare i soccorritori;due compagni giacevano in due pozze di sangue entrambe all’ incrocio di via Brioschi: Davide davanti al Tipota, Alex dall’altra parte della strada con Marta che lo aiutava. La sua ambulanza fu costretta a fermarsi fuori dall’ isolato  perché la strada di accesso era intasata di polizia italiana, esseri che magari lo fanno per sfuggire alla disoccupazione ma che potevano imparare a leggere prima;i soccorritori arrivarono di corsa in affanno,chinandosi su alex. Lui non lo vidi più,spari tra la gente e solo qualche giorno dopo lo riabbracciai in un letto al policlinico dove aveva lottato con la vita e la morte avendo riportato la perforazione dei polmoni.Un sopravvissuto che nei giorni seguenti ci tenne con il cuore in mano,a noi atei anti-credenti razionali la sua perdita ci terrorizzava.  Reagì e si salvò portando indelebili sulla pelle oltre che nel cuore decine di punti di sutura.

“Ok,possiamo andare”esclamò il medico agli altri colleghi;”andiamo al pronto soccorso del san paolo”.

Il san paolo è l’ ospedale della zona Barona, classico palazzone esteticamente orripilante a mezzaluna tra delle case popolari nel sud milanese.Fin da piccolo ci andavo magari quando giocando a calcio mi facevo dei piccoli traumi, facendo file chilometriche che mi facevano smettere la voglia reale di andarci:”basta a calcio non gioco più” dicevo a mio padre unico sfigato candidato a sopportarmi le ore in fila,”basta…”in effetti un esempio di buona sanità, cioè incitare a non fare per non stare male.Dopo ore mi guardavano nell’ ortopedia,una saletta contigua sulla destra al corridoio delle sale di emergenza,dipinta di un color senape invecchiante anche appena messo, con delle sedie di legno bianco gelide anche ad agosto.

Per migliorare la cattedrale nel deserto, era stato costruito su una collinetta,insomma imponente e brutto;l’ accesso al pronto soccorso era diverso dall’ ingresso dell’ ospedale;vi si accedeva tramite una vietta, dove a fatica passavano due macchine, lunga all’ incirca cento metri dall’ arteria principale delimitata da delle siepi e una rete.Davanti al pronto soccorso si allargava creando un posteggio sulla destra e lasciando lo spazio per l ingresso nella camera calda delle ambulanze.L accesso era poi regolato da una guardiola con due telecamere incrociate e due porte a vetri bianche automatizzate,una per attesa ammalati l altra per attesa parenti in una sala grigia e triste che si stringeva diventando un corridoio con macchinette del caffè puzzolenti e una stanza presidio della polizia.

“fabio che fai?””vengo con te disse”.Salimmo sulla Corsa nera di Dax,unico nostro mezzo di locomozione in quel periodo e partimmo abbastanza velocemente perdendo subito l ambulanza che in sirena aveva imboccato in senso unico una strada.

“vai brega vai!””vado vado”replicai,”fabio tutto ok?””si non ti preoccupare ho solo due buchi” mi rispose. Mi impegnai e non presi nemmeno un rosso.

Non entrammo con la macchina nel pronto soccorso ma la lasciammo nel vialone che circonda l ospedale.A passo veloce ci portammo verso l ingresso,frastornati,sentivo sirene ovunque,lampi blu riflettersi nelle finestre dei palazzi.

Mi girai.

Arrivava un ambulanza e subito la riconobbi come quella che trasportava Dax.

Si fermò nella camera calda d’ ingresso a motore acceso spense solo le sirene;il movimento dei sanitari faceva ondeggiare il mezzo quasi facendolo danzare al ritmo dei led strobo che rendevano il posto quasi ipnotizzante.

“Andiamo”sentii.La porta posteriore e il portellone si aprirono contemporaneamente.

L’ autista afferro la barella,un infermiere stava praticando il massaggio cardiaco e il rumore dell’ ossigeno sfiatava dal pallone ambu in mano al medico che comandava la discesa.Cercai conferma che fosse Davide e subito un suo braccio con tatuato un mostro tentacolato cadde dalla barella.Il mio sangue gelò,forse iniziavo a sentire la realtà.Tutti sparirono dietro la porta a vetri.

Il silenzio.

Uscii dalla camera calda senza parole,trovai un angolo di prato vicino ad un muro di cemento armato;mi misi in ginocchio a piangere,presi il cellulare e non so perche chiamai a Berlino Elena,forse la donna della quale ero innamorato allora,e piangendo gli dissi”hanno ammazzato Dax!!”.Fini il credito.

Nel giro di qualche minuto arrivarono tutti i compagni e le compagne che avevano appreso la notizia dell’ aggressione.Molti di loro arrivavano direttamente da Brioschi dove alla nostra partenza la polizia aveva preso possesso delle strade.In silenzio e educazione ci sedemmo tutti appena fuori dalla camera calda dove c’ era un posacenere abbastanza grosso e la possibilità di parlare senza disturbare i degenti.Ovviamente io e Fabio iniziammo a raccontare il successo,confermato da Nunzio che nel frattempo era arrivato.Le condizioni gravi di Davide erano chiare ma nessuno azzardava ipotesi e la speranza era tanta.

Ancora oggi non capisco la telefonate ad Elena o forse ancora oggi penso che in quei minuti non volevo credere che il mio amico e compagno mi avrebbe lasciato;la settimana dopo avremmo dovuto occupare una casa insieme con Nunzio,per noi tre,per noi venuti da Rozzano con tanti sogni e con tanta voglia di lottare.

Eravamo quasi tutti,una quindicina,in lontananza arrivarono due forse tre volanti della polizia,delle fiat marea;stavano a distanza e qualcuno di noi le notò.Non stavamo facendo assolutamente nulla quindi in noi non vi era nemmeno il pensiero riguardo la loro presenza ovviamente poi la preoccupazione e l attesa per Dax metteva tutto in secondo piano.

“qualcuno conosce Davide Cesare?”Usci dopo qualche minuto un infermiere, minuti per noi sembrati un’ eternità.”Si, io”risposi, “venga” fece il signore sui 55 anni con capelli bianchi seguito da un gesto con il capo.

Mi alzai incrociando lo sguardo con gli altri e entrai.

La porta a vetri bianca si aprì automaticamente facendoci entrare in uno stanzone grosso penso una decina di metri per quindici,sulla sinistra le finestre con delle sedie e sulla destra dei letti;non c’ erano tanti pazienti,penso una decina al massimo,chi a letto chi seduto chi in piedi. In fondo alla stanza una strettoia creata  con dei muri in cartongesso spigolati  in alluminio non colorato appena montato.Di fronte due porte che per esperienza passata ricordo fossero gli ambulatori;sulla destra un corridoio che portava all’ ortopedia e alle mie vecchie attese.”Si fermi qui e attenda un attimo”mi fece educatamente l’ infermiere.

Annuii in segno di ricezione del messaggio. Mi fermai in piedi come una statua con fare fermo e taciturno ma con un oceano in tempesta interiore. Il colore dei muri talvolta era verde talvolta senape;c’ erano segni evidenti di lavori in corso e il pronto soccorso era in rifacimento estetico,come faceva moda ai tempi,con muri di cartongesso ovunque ancora non dipinti.

Si apri una porta,si affacciò l’ infermiere solito e mi chiese:”mi scusi chi e lei?””Un amico” risposi;”non è un parente?””No “risposi nuovamente. L‘ infermiere scrutò il medico che intravedevo tra il camice verde sciupato seduto sulla scrivania con gli occhiali azzurri colorati dal riflesso del pc antistante il viso sul quale non schiodava lo sguardo.Fece un si frettoloso.

“Venga pure”.Entrai.

“Salve”disse il medico,”si metta pure seduto”.”No grazie dottore preferisco stare in piedi”, risposi con educazione e voce ferma.

“Allora,lei conosce Davide Cesare?””Si” risposi, il dottore prosegui:”ha per caso contatti con la famiglia se ce l ha?””Certo” risposi prendendo un foglio e gli scrissi il numero di telefono e l indirizzo.”Li trova qui,ma magari ora e tardi magari dormono”,”certo “rispose”.

La stanza era quadrata e piccola; entrato con la porta alla schiena la scrivania era sulla sinistra, piccola con stampante e pc, di fronte un mobile con farmaci e attrezzatura come defibrillatore e respiratore automatico; sulla destra vicino al muro un lettino. Il colore di tutto era celeste cesso di mia nonna,con mobili crema e inox.

Presi coraggio: ”dottore come sta Davide?”

Lui alzò lo sguardo con due occhietti neri resi minuscoli dalle lenti ad alto grado, cambiò espressione in un misto tra stupore e preoccupazione.

“Davide purtroppo è deceduto”e indicò il lettino ove la c’ era Dax, coperto con un lenzuolo solo nelle parti intime.

Non lo avevo visto, e occupava metà della stanza.”Vede signore il suo amico ha ricevuto almeno dieci coltellate quasi tutte in punti vitali di cui almeno tre chiaramente potevano essere già letali”, indicando con la mano secca e curata il collo e il petto.

Giaceva immobile, i segni delle coltellate sembravano aperture nella pelle lunghe al massimo due centimetri, il sangue era stato tutto pulito e le ferite facevano intravvedere il grasso sotto pelle.

“Vuole sedersi?”Mi richiese?”No grazie”risposi, guardando le profonde occhiaie nere sempre presenti sul volto di Dax, prodotto dal poco dormire dovuto alle ore che passava sul camion per mantenere la sua piccola bimba, ”anzi se e tutto, adrei”.”Si, mi può dire se lui è Davide Cesare e il suo nome?”. Presi la mia carta d’identità e glie la porsi, ”si lui e Davide Cesare, il mio amico.”

Copiò i miei dati e mi ridette il documento”grazie, mi spiace”.

Uscii come un automa.

Attraversai a passo veloce l’ astanteria, mi sentivo su un tapis roulant; camminavo ma ero fermo, il poco che facevo in avanti si vanificava con le mura che scorrevano cadendo alle mie spalle, la porta a vetri bianca restava a distanza inarrivabile e sempre chiusa.Le voci che chiamavano i pazienti erano lente e gonfie, riecheggiavano nel mio cervello come petardi in stanze vuote; quei dieci metri un purgatorio in ricerca di un abbraccio, una condivisione di dolore, un ritorno alla realtà e uno schiaffo alla vita dove per una volta il sentito dire cadeva sulla pelle propria.

Uno dei libri che più mi avevano mosso nell’ animo era quello su Fausto e Jaio, due compagni vicini al centro sociale Leoncavallo che nel 1978, per la precisione il 18 marzo, erano stati giustiziati da un commando per le lotte che portavano avanti. Questo libro mi aveva impressionato di come si potesse morire di marzo, la precisione del racconto, l’ amaro di chi lo aveva vissuto e i segni che aveva lasciato; Mancinelli era una via tetra, è una via tetra e ripercorrevo in certi miei passi i loro, sentendomi avvicinato come successe quella maledetta notte. Anniversario portato avanti da compagni compagne amici e famigliari e proprio come con Dax due giorni dopo saremmo dovuti andare.

La porta bianca si apri. Mi avvicinai a tutti. Veloce ma senza alzare voce o scompormi.

Appena vicino scoppiai a piangere per la seconda volta e dissi: ”lo hanno ucciso”.

Ci abbracciammo forte tutti. Molti iniziarono a piangere, chi seduto chi appoggiato al muro,ma con molta dignità e dolore.

Dopo tanti anni a Milano, dei fascisti ammazzavano un compagno; io avevo 25 anni e non me lo ricordavo un evento simile.

Penso fosse all’ incirca mezza notte.

Il vialetto era illuminato di una luce arancio emanata dai lampioni a muro sul pronto soccorso.

Noi eravamo un pò sparpagliati ma uniti nel dolore, chi al cellulare chi in silenzio razionalizzavamo il tutto, quando la polizia italiana arrivò con due mezzi.Io ero lontano, appoggiato al muro del pronto soccorso dove era arrivato Peter, uno dei miei migliori amici e compagni.Si avvicinarono a chi di noi stava più verso l’ uscita e a bassa voce iniziarono a proferire parole; subito i compagni cambiarono lo sguardo: ”andate via merde”tuonò orlando con la sua “R” riconoscibile. Iniziò un leggero spintonamento, feci per andare ma Peter mi prese per il braccio: ”Brega stai qui”. Loro erano massimo una ventina, non c’ erano borghesi, ma tutti in divisa classica da pattuglia, o almeno credo, comunque non erano in anti-sommossa.

“Via,ve ne dovete andare”con voce piena un altro compagno faccia a faccia a uno di questi.

Loro restavano impalati con un ghigno, e per l ennesima volta a voce bassa parlavano in faccia ad orlando. Uno di loro lo senti con le mie orecchie dire”dai ragazzi andiamo”, aveva penso la mia età, biondino, con la faccia di chi si domanda che cazzo ci fa li e che sa che in caso deve intervenire anche se i suoi colleghi stanno sbagliando.”Zitto”rispose uno in prima linea e giratosi verso di noi con una faccia ingrugnata carica di rabbia disse: ”merde siete uno di meno!”e subito un suo simile: ”comunisti di merda vi ammazziamo tutti!!”

Rispettare chi prova del dolore dovrebbe essere un principio d’ intelligenza.

Queste parole riecheggiano molte notti nei miei sogni, mi accompagnano da anni e non se ne vanno, il mio unico rimorso e di non averne ammazzato uno li.

“Merde andate via!” Incominciarono tutti i compagni e le compagne, queste frasi erano state prima già dette ai primi di noi che avevano incrociato.”Via!!”

Loro si misero in guardia e caricarono.

Ora trovarono persone che sicuramente non li amavano, che di lotta politica e scontri insieme erano anni che la facevano, ma la rabbia e gli occhi di fuoco che avevamo penso ci avrebbero scatenato contro anche a mille di loro.

Eravamo venti contro venti,mani nude.

“Peter mollami dio porco””no Brega sta qui”, e mi teneva con tutta la forza possibile e abilità anche dettata dal suo lavoro come educatore in psichiatria, ”mollami cazzo!!”

La loro carica fu minima, la muraglia dei compagni era determinata, rispondeva colpo su colpo senza paura; tra loro c’ erano avvelenati all’ impossibile, forse figli della frustrazione del loro lavoro servilente o per la maggiore avevano trovato l’ occasione per farci pagare anni di lotte senza digos o giornalisti tra le palle. Abituati a primeggiare nei quartieri sempre prendendosela coi più deboli oggi ancor più legittimati dalle leggi schiavitù riguardanti l’ immigrazione, sicuri di non trovare mai la risposta all’ aggressione perche l’ aggredito ha troppo da perdere, da l’ espulsione fino al carcere per i minimi reati.

Con noi non era cosi; già normalmente la nostra paura era minima, sapevamo che la possibilità di essere colpiti dalla repressione c’ era ma anche che avvocati e solidarietà facevano parte del nostro modo di agire, senza rimembrare, anche se la cosa più importante, che il nostro lottare non era per un profitto personale ma per una ideologia che ci univa in ogni essenza.

Loro erano convinti: ”comunisti vi spacchiamo!!”

“Peter mollami!” lui nulla, gli sbirri avanzavano ad elastico anche se la mancanza dell’ antisommossa faceva notare le loro smorfie, più che mai,sono uomini e pure di merda; ”Peter!!”

La Veronica, la compagna di Peter a quei tempi  lo aveva accompagnato e in quel momento ebbe una crisi di panico. Peter era ad un bivio, lo guardai ed entrambi sapevamo che lasciarmi era la cosa più ovvia ormai.

“Vai cazzo”mi mollò.

Come un pitbull mi misi subito in guardia al fianco del compagno più alto e avanzato che c’ era, gli sbirri avevano cominciato a usare manganelli e ovviamente noi ci difendevamo con ciò che trovavamo; presi il mio moschettone in ferro e lo misi dentro la cintura attaccato alla fibia.

Le cinghie fischiavano al vento.

Loro si aprirono in mezzo, ci infilammo per un paio di metri rompendo a metà la loro linea; ero davanti e arrivai fino alla prima macchina messa con il posteriore verso di noi; ”andate via merde” con la cinghia e a calci cominciavo a distruggere il possibile partendo dai fari al lunotto posteriore. Passai verso l’ altra macchina colpendone un faro; mi girai: ero rimasto solo.

Feci un passo verso i miei compagni ma davanti avevo tutta la linea ricompattata della polizia; all’ istante sentii un braccio prendermi per il collo e portarmi indietro. Mi aveva preso bene e sicuramente per come mi spostava non era più piccolo di me. Mi soffocava e mi girava sbattendomi come una leonessa con la gazzella. Io non demordevo, scalciavo, la cinghia non la mollavo e cercavo inutilmente la liberta di movimento.”Bre!!”. Lo sbirro mi molla. Nunzio era riuscito ad arrivare con gli altri e mi aveva tolto lo sciacallo di dosso. Di fronte a me ne avevo un altro che stava per prendere non ricordo chi alle spalle, l’ individuo mi porgeva il lato sinistro senza guardia; con un movimento fulmineo e carico di rabbia faccio due passi e lo colpisco con tutta la forza in testa con la cinghia. La fibia esplode. Il moschettone vola in cielo; lo sbirro barcolla e cede verso il suolo come un albero al taglio. Mentre e in caduta libera, dal davanti un compagno lo colpisce in piena mascella con un mattone.

Prima di lui al suolo arrivano una manciata dei suoi denti. Me li sarei mangiati; inerme.

Giro lo sguardo, vedo il primo poliziotto che voleva all’ inizio andarsene che mi guarda fisso negli occhi, con un aria di “non volevo”;scappa.

Ci ricompattiamo davanti alla camera calda, gli estintori cominciano a far vibrare l’ aria.

La polvere rende tutto più confuso, per loro. Prendiamo il portacenere e cominciamo a farlo volare insieme ad ogni cosa contro gli ultimi restati, esausti, gonfi.

A loro non resta che la fuga, noi non li seguiamo.

Restiamo nel nostro dolore.

Le porte del pronto soccorso sono spalancate.Entro con educazione buttando la cinghia distrutta. Indosso un paio di jeans delle Adidas nere e una felpa nera. Cammino verso gli ambulatori, la gente in attesa resta sempre la solita: ovviamente dopo un urgenza come quella di Dax tutto il pronto soccorso si ferma per soccorrere il malato grave; la situazione era ancora in stallo. Girai verso l ortopedia, il corridoio che mi era più famigliare nell’ ospedale.

Mi sedetti in un angolo.

Quando bambino ero immacolato, una pelle morbida capelli biondi; mia mamma mi ha sempre curato in ogni modo. Più volte mi ero seduto su quella panchina in pronto soccorso; mi ricordavo il mio piedino gonfio per una storta o quando giocando a rugby che mi ruppi la clavicola.I prati verdi di Rozzano ormai spariti, gli amici di infanzia, le ore sotto i palazzi, la sera ad aspettare qualche bella che ci piaceva al muretto.Un adolescenza a Rozzano non è diversa da un paesino, ma ha una serie di regole alle quali ci si attiene, regole dettate dalla strada, codici di quartiere taciti quanto imponenti. Io non ci sono cresciuto male, cioè penso di non essere un esempio per la società anzi, ma credo di aver creato sempre con le persone più vicine a me dei rapporti veri. Qualcuno mi diceva:” a te chi ti ammazza”, pensandoci bene non lo so e non mi interessa ma “vai tranquillo che io per te mi farei ammazzare ora”. Forse dovevo dirlo, invece facevo un sorriso, che comprendeva ancora più roba. La mente balzava ai viaggi interminabili in vespa per Milano, i rumori dei tombini al passaggio, le canne e le risate e spesso anche scene di infinita tristezza come pestaggi infami  di tanti contro uno in un angolo di piazza e l’ obbligo di farsi i fatti propri.

La vista è nuvolosa, la testa tra le mani sporche ormai da ore di sangue, le unghie nere. Sento suoni incomprensibili, passi di scarponi, voci, urla, luci che si spengono e vetrate che crollano con un suono tonfo seguito da milioni di cristalli che rotolano impazziti sui pavimenti in pvc.

Alzo lo sguardo e vedo un gruppo gigante di scarafaggi appoggiati ad un angolo che si dimenano verso ogni dove. Sento una voce di donna, una voce conosciuta. Sento il rumore di qualcosa che sbatte contro l’ angolo di alluminio vivo del cartongesso. Il rumore e secco e vedo che l’ oggetto che sbatte e ben impugnato da uno scarafaggio. Sento un fischio nelle orecchie, stringo gli occhi come nei sogni, sperando di svegliarmi forse, li riapro e vedo un gruppo di carabinieri in antisommossa con mazze da baseball che picchia la testa della Daniela contro lo spigolo; la Dany è piccola. Loro si accaniscono con violenza. Uno, due, tre, quattro , otto colpi. Mi alzo, piglio alla schiena il primo che capita: ”ma che cazzo fai?””Ecco un’altra merda”mi dice ridendo. Mi saltano addosso tutti. Tra di loro c’ erano anche agenti di polizia, tutti ben protetti.

“Bastardo ora ti spacchiamo”, mi ammanettano con le mani dietro la schiena.

“Bastardo!”

Io inerme come un animale da macello. Mi alzano le mani obbligandomi cosi a chinarmi, mi cade il cappuccio in testa, da sotto mi colpiscono in faccia con la mazza da baseball in legno. Ogni tre passi un colpo. ”Ne abbiamo preso un altro”urlavano, ”bastardi comunisti”, arriva uno e con la radio di ordinanza mi colpisce con massiva violenza sulla nuca, appena sopra il cervelletto, vedo le stelle, mi si spegne la luce e mi cede un ginocchio quasi a cadere. ”Tieni”da sotto un’altra mazzata che mi fa tornare in piedi facendomi capire che cadere è impossibile.

Il naso esplode di sangue, un rubinetto, un occhio non lo apro più, il labbro mi brucia.

Non capisco dove andiamo, imbocchiamo il vialetto, ritualmente colpito cerco al terzo passo di porgere il lato del viso alle mazze da baseball e non i denti e il naso. Una mi arriva sull’ orecchio, il timpano collassa come un tamburo suonato con un martello.

Più volte ho percorso il vialetto che porta all’ uscita del pronto soccorso, un centinaio che quella sera mi sono sembrati chilometri. Le gambe dure, ogni colpo non creava più dolore, le manette si infilavano nella carne.

Arriviamo alla volante, un’ Alfa Romeo. Aprono la porta e mi spingono con tutta violenza dentro ma sbagliano tirandomi con la faccia contro la parte posteriore della carrozzeria; sbagliano almeno in cinque, ma il sesto ci riesce. Mi chiudono dentro.

Mi sveglio.

Le volanti sfrecciano ovunque, io sono nel vialetto in fila con circa quattro o cinque mezzi, la prima accende le sirene, sgomma e parte. In lontananza vedo Mirko e al suo fianco Walter; ho ancora il telefono, riesco a chiamarlo in viva voce:”Walter!””cazzo Brega dimmi, dove sei” rispondo” di fronte a te ”lui inizia a indicare” più a destra, si, nella macchina ”corre verso di me. Lo segue il buon Mirko immancabile avvocato compagno e amico. Dietro la digos.

“Aprite” gli urla Walter,il digotto mi guarda e sbianca; non dovevo essere bellissimo in effetti.

“Aprite subito e portatelo in pronto soccorso”disse ad un suo collega.

Dentro la macchina mancava l’ aria, sei chiuso in una scatola di plastica puzzolente e senza sedili.

Mi aprono, l’ aria fresca mi entra nei polmoni, mi sorreggono, mi tolgono le manette; mi scortano in pronto soccorso.

Non guardo spesso i telegiornali ma una scena madre è il classico ospedale di Beirut dilaniato dalla cattiveria umana: il san paolo non sfigurava in questa immagine.

Le porte vetro erano sparite, il pavimento era chiazzato di sangue, macchie che avevano dimensioni fino ad un diametro di un metro. Lo stanzone che al nostro arrivo era ordinato sembrava bombardato: i letti ribaltati, sangue ovunque, vetri rotti. Il medico mi aspettava, seduta in un angolo c’ era Rosi, con Angelo, Daniele e Claudino. Ci siamo abbracciati a lungo, tutta la famiglia di Davide era li. Un dolore immenso.

Il medico iniziò a visitarmi, la frattura del naso era ovvia, preoccupavano molto i denti e lo zigomo. Mi fecero lastre anche ai polmoni, un ecografia al fegato, insomma in poco tempo mi controllarono tutto, compreso un piede che ancora oggi duole.

Mi sedetti.

A turno arrivarono tutti. Lorenzo, Nunzio, Jessica, volti devastati dalle botte.

Anche qualche illeso era li, ma girava voce che c’ era stata e ancora c’ era una caccia all’ uomo per tutto l’ ospedale e anche per le strade del quartiere.

Persi due denti che ancora oggi non voglio rimettere perchè non dimenticare aiuta a capire e sapere chi è il nemico.

Venne la digos e mi portò via.

Mi tennero in una stanzetta fino al mattino, l’ unica cosa che ricordo con sicurezza e che mi chiesero il nome del cane Rommel. Le merde ci tenevano in ospedale e nel frattempo arrestavano la famiglia Morbi, cioé i due fratelli e il padre che ci avevano aggredito in Brioschi.

In casa loro trovarono un busto di Mussolini e varie oggettistiche di stampo nazista.

All’ alba mi lasciarono. Il vialetto del san paolo era ancora vittima del post battaglia. Il pronto soccorso era stato chiuso tutta notte. Era il 17 marzo 2003, un giorno come un altro per tanti, ma per alcuni di noi fu l inizio di un nuovo mondo.

“Peter mi ospiti a casa?” Lui con un sorriso ”certo fratello” per me , lui  c’è sempre stato.

Il sole era rosso, per terra luccicavano i vetri  e un moschettone, il mio, inseparabile, oggi appoggiato in un bicchiere vicino a mio fratello, un uomo che mi ha insegnato semplicemente a essere uomo.

“Notte Peter” domani è un altro giorno. Riposare serve per essere pronto.

Si, perche guerrieri si nasce e guerrieri si muore.

A Dax libero e ribelle, calda o fredda andrà servita.

dax-2011